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Psicosi e Arte

Fonte: “Psicosi e Arte” Mario Mulè

“ S’era veduta assaltare nel silenzio da uno strano terrore improvviso, che le mozzava il respiro e le faceva battere in tumulto il cuore… allora la compagine dell’esistenza umana… priva di senso, priva di scopo le si squarciava per lasciarle intravedere in un attimo una realtà ben diversa… impassibile e misteriosa, in cui tutte le fittizie relazioni consuete di sentimenti e di immagini si scindevano, si disgregavano…”

“ Le avveniva spesso, meditando, di fissare lo sguardo sopra un oggetto… a poco a poco, quell’oggetto le s’imponeva stranamente; cominciava a vivere per sé… e si staccava da ogni relazione con lei stessa e con gli altri oggetti intorno.”

“ Certe volte, innanzi allo specchio… alzava una mano nell’incoscienza; e il gesto le restava sospeso. Le pareva strano che l’avesse fatto lei. Si vedeva vivere… si assomigliava ad una statua di antico oratore ( non sapeva chi fosse ) veduto in una nicchia…”

“ In quell’attimo terribile… provava tutto l’orrore della morte e con uno sforzo supremo cercava di riacquistare la coscienza normale delle cose, di riconnettere le idee, di risentirsi viva.

Ma… a quel sentimento solito della vita non poteva più prestare fede… sotto c’era qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi se non a costo di morire o di impazzire.”

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Se provassimo a sottoporre la descrizione di queste esperienze ad uno psichiatra, chiedendogli di formulare una prima ipotesi diagnostica, molto probabilmente sospetterebbe un disturbo di Depersonalizzazione ( F 48.1 del DSM IV ).

Potrebbe aggiungere che tale disturbo può costituire una sindrome a sé stante, oppure ( seguendo le istruzioni del DSM ) potrebbe far parte di una sintomatologia riferibile a schizofrenia, disturbo di panico o altro disturbo dissociativo.

Se di formazione fenomenologia, probabilmente penserebbe alla “ perdita dell’evidenza naturale” descritta da Blankenburg.

Il clinico tuttavia dovrebbe ancora tenere conto dell’avvertenza del DSM, che ci avvisa che “ la depersonalizzazione è un’esperienza comune, e questa diagnosi dovrebbe essere posta solo se i sintomi risultano sufficientemente gravi da causare marcato disagio o menomazione nel funzionamento”.

In realtà non si tratta di materiale clinico, ma di frammenti di un romanzo di Pirandello, dal titolo “ Suo marito”. E’ la descrizione di vissuti di una scrittrice, che i critici del tempo hanno identificato in Grazia Deledda, ma verosimilmente appartenenti allo stesso Autore, che già negli anni giovanili si soffermò a lungo a riflettere sulla propria poetica, definendola “ umoristica” e indicando nel fenomeno della depersonalizzazione ed in quello della dissociazione ( da lui intesa come analisi minuziosa e spregiudicata di tali vissuti ) i momenti fondamentali.

In altri termini, per Pirandello, l’esperienza di estraniazione è necessaria e preliminare per l’osservazione di un mondo di significati soggettivi, emotivi e cognitivi, che esistono al di là del senso comune, significati che l’uomo occulta costantemente per la paura di perdersi, di impazzire.

Seguendo Pirandello, possiamo guardare alla depersonalizzazione come la porta d’ingresso di un mondo inquietante, che consente tuttavia la possibilità di un attraversamento che potrà svelare il volto ambiguo dell’uomo dietro la maschera sociale.

Ma sappiamo anche che la depersonalizzazione può essere considerata la risposta “ psicotica” ad esperienze traumatiche, porta d’ingresso ad un mondo alieno, vissuto nell’estraneità ( Minkowsky ) e nella successiva convinzione che tutto ciò che accade sia ispirato e determinato da una forza oscura ed onnipotente ( Benedetti ).

Se dunque esistono tratti comuni nelle esperienze artistiche ed in quelle psicotiche, diventa necessario, accanto ad una continuità, riconoscere anche le differenze, effettuando una sorta di “ diagnosi differenziale” che potrà considerare anche altre esperienze impregnate di depersonalizzazione, come ad esempio il disturbo dissociativo d’identità, il disturbo di panico, alcune esperienze mistiche.

Ma bisognerà cercare anche i fondamenti comuni di queste esperienze che, a ben guardare, sono squisitamente umane: infatti solo l’Homo sapiens sapiens impazzisce o scrive poesie, dipinge, medita, si guarda allo specchio chiedendosi “ chi sono, da dove vengo, che rapporto ho con il mondo, con l’universo”.

E qui la povera psichiatria, scienza applicata deve correre in prestito, chiedere aiuto agli altri, riconoscendo di non avere la strumentazione idonea: il DSM, in altri termini, non funziona più.

I fenomenologi sembra siano quelli che meglio si sono attrezzati: Arnaldo Ballerini, ad esempio, attinge a piene mani dalla filosofia di Husserl.

Da questa filosofia mutua il concetto di “ orizzonte intenzionale”, e più in generale fa riferimento alla fenomenologia della coscienza.

La fenomenologia infatti può essere considerata una scienza che tende a chiarire e rendere espliciti le tre modalità intenzionali della conoscenza e cioè la percezione, la significazione e l’immaginazione.

Questo tipo di indagine consente, fra l’altro, di evidenziare come in ogni stato di coscienza, in ogni relazione con l’altro e con il mondo c’è un “ orizzonte intenzionale”, una potenzialità di visioni e di significazioni, un “ alone” di altri significati, ma anche un potenziale collegamento ed evocazione di ricordi, di percezioni passate, di emozioni collegate.

Insomma “ vi è sempre un di più, che si estende al di là della percezione attuale di significato.

Come non pensare all’infinito leopardiano?

“ Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura…”

Senza entrare nel merito della poetica leopardiana, si può notare il modo in cui il poeta si pone di fronte a pensieri e sensazioni che la vista dell’ermo colle gli suscita. L’inquietudine e lo smarrimento ( “ per poco il cor non si spaura” ) cedono il posto allo spaziare del sentimento e del pensiero, ad un lasciarsi andare religiosamente verso l’infinito, con un sentimento di “ con-fusione” con la natura e con il mondo soffuso di dolcezza (“ il naufragar m’è dolce in questo mar” ).

L’io del poeta, pur nello stupore, rimane integro; ed anche quando si abbandona alla corrente di emozioni vaghe ed incerte ( L. è stato anche connotato come poeta del vago), come un esperto canoista guida la sua canoa senza alcun rischio di essere travolto dalle correnti.

Ben diversa è la condizione psicotica: anche qui c’è una eccedenza di significati, di intuizioni, di pensieri; ma l’effetto è quello di una inondazione che travolge i confini dell’io.

Manca, nella condizione psicotica, la forza coesiva del soggetto; forse anche la capacità di filtro, di un’inconsapevole funzione selezionatrice ed ordinatrice dell’esperienza.

Il risultato è uno straripamento, una inondazione che manda in frantumi le funzioni assimilatrici ed ordinatrici del soggetto.

Ed anche quando rimane una capacità del soggetto di guardare al disastro che sta subendo, sbalordimento, perplessità e terrore si impongono prepotentemente.

Da una poesia di Maria Fuxa, vissuta per decenni nell’O.P. “ Pisani” di Palermo ( la poesia si intitola “ Dov’è il mio io?”)

Mi sento senz’anima

e priva di corpo

Staccata da terra, da case

da vie, da muri…da tutti

Mi aggiro in angosciosa

ricerca del mio io…

smarrito, strappato,

sepolto, incatenato?…Non so

non capisco…

E chi è costei che ha le sembianze

del volto che si trascina con me?…

La capacità dell’io di filtrare, assimilare, organizzare, riconoscere come propri aloni di significato insoliti e misteriosi e non l’assenza di tali fenomeni distingue l’uomo sano ( ed in particolare l’artista ) dal paziente psicotico.

Parlo di uomo sano per indicare la presenza di una propensione dell’uomo sufficientemente libero e creativo ad oltrepassare i limiti dell’ovvio, di non fermarsi al primo spettro di significati che l’incontro con il mondo realizza, di oltrepassare almeno un po’ le colonne d’Ercole per esplorare l’incerto, cercando un equilibrio tra una rigidità dei vincoli che lo renderebbero anonimo ed una assenza di ordine che lo farebbe folle.

C’è un altro aspetto della depersonalizzazione che accomuna l’uomo psicotico al c. d. normale e all’artista in particolare.

Mi riferisco al senso di estraneità e di passività di certe intuizioni ed in modo particolare di certe ispirazioni artistiche che si impongono al soggetto, trapassandolo.

“ I’ mi son un che, quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando.”

Dante, in questi versi, riconosce che qualcosa “ ditta dentro”, ma dice anche che successivamente va “ significando”, dà forma e senso a ciò che s’impone spontaneo nell’ispirazione.

Ancora una volta la differenza con l’intuizione delirante di marca psicotica sta nel riconoscere come propria l’ispirazione, nel maneggiarla, arricchirla, tradurla in parole o immagini che vogliono parlare all’altro di sé e del mondo.

Del resto anche Pirandello “ riceveva” i suoi personaggi, che si presentavano vivi e portatori di un proprio dramma che chiedeva solo di essere rappresentato. Ma è indubbio che i personaggi “ in cerca d’autore” portano l’inconfondibile marchio pirandelliano.

Depersonalizzazione e derealizzazione si ritrovano tra i sintomi caratterizzanti gli attacchi di panico. E non è raro constatare come in alcune persone segni un cambiamento significativo nella loro vita: alcuni parlano del loro modo di vivere come segnato da una cesura, da un prima e da un dopo, dove in mezzo si ritrova l’esperienza terrificante dell’ “attacco”. Il rapporto con il proprio corpo e con il mondo è cambiato, si è intravisto – anche se solo per pochi minuti – un abisso.

E’ un abisso in cui si mescolano la perdita della vita ma anche la perdita della realtà. Sappiamo che la perdita della realtà è l’aspetto più traumatico, più sconvolgente di una esperienza psicotica. Perciò non ci dobbiamo stupire se chi ha sperimentato “ soltanto” qualche attacco di panico ( una micro-crisi simil-psicotica ) può ritrovarsi con un diverso sentimento di sé e del suo stare nel mondo.

Depersonalizzazione e derealizzazione, come si sa, costituiscono aspetti sintomatologici importanti dei disturbi dissociativi, dove ad essere messa in questione è l’unità della persona, la sua identità.

La povera psichiatria, ancora una volta, si trova di fronte una problematica estremamente complessa, un territorio di esplorazione dove non solo la psichiatria e la psicologia cercano un orientamento ed un senso, ma si aggirano anche filosofi, antropologi, sociologi, etc..

Zymunt Bauman, nell’ “ intervista sull’identità” parla dell’identità nell’epoca attuale come di un grappolo di problemi e del desiderio di definire la propria identità come di “ un sogno di appartenenza”.

“ Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal…Non mi pareva molto, per dire la verità…Ma ignoravo allora cosa volesse dire il non sapere neppure questo…”

In verità la clinica sembra dare ragione a Bauman e a Pirandello, considerato quante incrinature dell’identità ci fa vedere: dal disturbo dissociativo d’identità con l’alternanza di personalità multiple all’amnesia dissociativa ( famoso il caso dello smemorato di Collegno ), dalla fuga dissociativa al disturbo di depersonalizzazione emerge una varietà di modi in cui l’identità, questa misteriosa condizione data per scontata per ogni persona, si sfalda e si dissolve.

C’è poi il capitolo dell’identità sessuale, anche questa soggetta a non poche variazioni: si pensi ad esempio al c.d. “ disturbo dell’identità di genere” in cui vi è una “ intensa e persistente identificazione con il sesso opposto ( DSM IV ), ma anche al transessualismo, al travestitismo, alla bisessualità.

Come per altre problematiche umane intraviste dall’osservatorio clinico, è il disturbo schizofrenico che ci mostra in maniera radicale la possibilità che un nostro modo di vivere, ritenuto ovvio e naturale, in realtà è una possibilità e un risultato per nulla scontati.

Nel disturbo schizofrenico il vissuto d’identità con le sue qualità fondamentali di memetè ed ipseitè ( per usare le parole di Paul Ricoeur ) e cioè con un senso di coerenza e continuità nel tempo e di appartenenza a se stessi ( di “meità” ) si dissolvono dalle fondamenta; e non è raro vedere il tentativo di dare senso a questa nuova realtà attraverso la costruzione di una nuova identità, come avviene per esempio nel delirio delle origini.

Accostandoci alla tematica dell’identità, ancora una volta ci troviamo di fronte ad una realtà dalle molte facce, e tanti sono i sentieri che si possono percorrere.

Può succedere di subire più o meno drasticamente la crisi dell’identità, come avviene nelle varie patologie cui si è accennato.

Si possono costruire “ illusioni di appartenenza”, a volte non troppo lontane dal delirio, come mi sembra sia avvenuto al popolo tedesco alla ricerca di un mito sulla razza pura o forse anche nei riferimenti assai fantasiosi ad una cultura celtica di marca leghista.

Oppure si può prendere atto di questa complessità, resa più evidente nella nostra epoca globalizzata, liquefatta nelle sue tradizionali istituzioni, multietnica e tendere verso “ una vocazione, una missione, un destino scelto coscientemente.” ( Barman)

Vorrei ricordare un altro modo di sperimentare il dissolversi della propria identità, questa volta non marcata dall’angoscia ma da emozioni e pensieri affatto diversi:

“ Una mattina, chinandomi a prendere un fiore che non avevo mai visto, mi accorsi che l’erba attorno era piena di maggiolini…Mi misi ad osservarne uno e mi persi. Scalava un filo d’erba, passava ad un altro…infaticabile…finchè ad un certo punto da sotto la sua corazza lucida e rossa, tirò fuori delle minuscole ali trasparenti e volò via: non lì accanto in un altro cespuglio, ma via via in alto, nel cielo, verso le montagne…”

Le montagne di cui parla Terzani sono quelle hymalayane, di fronte alle quali compie l’ultimo viaggio, questa volta dentro se stesso e contemporaneamente verso la natura, verso l’universo, in un abbraccio con il tutto pieno di gioia e di pace.

Uscire dai propri confini si può dunque, come nella meditazione e come in certe esperienze spirituali, senza precipitare nell’angoscia, anzi ritrovandosi in una dimensione in cui la perdita dei confini avviene al servizio della piena individuazione.

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Qualche accenno al paragrafo del libro di Benedetti ( La psicoterapia come sfida esistenziale ) in cui l’autore riflette sui rapporti tra psicopatologia ed arte.

La tesi proposta è che l’opera d’arte di persone sofferenti di disturbi psicopatologici, se dotate di capacità artistiche, può essere profezia del mondo e dei suoi mali, del negativo. Proprio la presenza di un male interno ( per es. una psicosi ) consente la percezione del male che vive nel mondo degli uomini, essendo la nostra psiche necessariamente relazionale.

Ma la produzione artistica può essere anche autoterapia: per es. un’opera pittorica, come un vero e proprio oggetto transizionale, può consentire una “ trasfigurazione proiettiva”, altre volte una compensazione, oppure un “ oblio del mondo” e delle sofferenze che in esso viviamo.

Anche laddove viene rappresentato il tragico, come nel dipinto di Max Von Moos dal titolo “ La cucina del demonio o Stalingrado” è possibile intravedere oltre la tragedia la speranza, la possibilità che possa affermarsi il bene, l’amore.

Due testimonianze ( fra le tante possibili ) sembrano dare forza alla tesi dell’autore; traggo la prima da Primo Levi. Ad un intervistatore che gli chiedeva come sarebbe stata la sua vita senza la terribile esperienza del Lager, rispondeva che non sapeva che dire se non questo: “ Se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz probabilmente non avrei scritto nulla…ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia…ed avevo scelto un mestiere, quello di chimico. E’ stata l’esperienza del Lager a costringermi…mi pareva, questo libro, di averlo in testa tutto pronto…Forse mi ha aiutato ( a sopravvivere ) il mio interesse per l’animo umano…e la volontà di raccontare le cose a cui avevo assistito e che avevo sopportato e infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più oscuri, nei miei compagni ed in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.”

L’altra testimone è Maria Fuxa:

Poesia

Vedo intorno a me disfarsi

il mondo. Mi resti ancora

tu, dolce poesia, come fresca

sorgiva in torrido deserto

In te ritrovo il mio io

autentico e puro. Per me

sei scintilla di vita

e luce armoniosa…

Con te respiro;

in te scopro un senso

alla mia perduta vita

per te mi ritrovo amore.

Note bibliografiche

• American Psychiatric Association: DSM IV TR Ed. Masson

• A. Ballerini: Caduto da una stella Giovanni Fioriti Editore

• Z. Bauman: Intervista sull’identità Ed. Laterza

• G. Benedetti: La psicoterapia come sfida esistenziale Raffaello Cortina Editore

• A. Correale: Area traumatica e campo istituzionale Edizione Borla

• Maria Fuxa: Voce dei senza voce Ed. A.S.L.A.

• J. Kabat-Zinn: Vivere momento per momento Ed. TEA

• G. Leopardi: L’infinito da I classici italiani di Luigi Russo Ed. Sansoni

• P. Levi: Se questo è un uomo Ed. Einaudi

• L. Pirandello: Suo marito Ed. Mondatori

• L. Pirandello: Il fu Mattia Pascal Ed. Mondatori

• T. Terzani: Un altro giro di giostra Ed. TEA

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